Un estraneo senso di apocalisse dove prima eravamo noi. Intervista a Moby

Intervista a Moby, l’artista americano ha accettato di presentare la sua prima mostra fotografica a New York.

Alessandro Berni e Moby

Moby, è nata prima la tua passione per la fotografia o per la musica?
Entrambe sono arrivate nella mia vita molto precocemente. A dieci anni ho cominciato a suonare la chitarra, e sempre a quell’età mio zio, Joseph Kuglelsky, che all’epoca faceva foto per il New York Times, mi ha regalato la prima macchina fotografica, una Nikon F.

Come sei arrivato a professionalizzarti in entrambe le arti?
Rispetto all’apprendimento delle tecniche fotografiche, con la chitarra riuscivo ad avanzare più rapidamente. Di conseguenza, il successo musicale è arrivato molto prima, ma non ho mai smesso di praticare nessuna delle due arti. All’università ho preso due lauree, una in filosofia e l’altra in fotografia.

A proposito di tecniche fotografiche, come hai gestito il cambiamento da pellicola a digitale?
Ricordo che cominciai a parlare di macchine digitali con mio zio nel 1989. Coscienziosamente, cominciai a utilizzarle dal 1993.

Com’è cambiato grazie a questa tecnologia il tuo modo di fare foto?
Non molto. Da ragazzo non avevo molti soldi, e per me stampare foto era un costo, quindi ci mettevo tantissimo tempo prima di fare uno scatto. Oggi, anche se con il digitale si possono fare milioni di scatti per una sola posa, io per la preparazione di ognuna prendo ancora tempo, come quando ero un ragazzo con le tasche vuote.

Moby - Lone, Archival Pigment Print on Hahnemuhle Fine Art Baryta, 49 x 64, edition of 3

Cosa ti manca di più del passaggio tra pellicola e digitale?
Beh, come a tutti, mi manca l’ambiente della camera oscura.

Com’è nata questa tua collaborazione con la Emmanuel Fremin Gallery?
Merito di un amico in comune, Lee Milazzo. Lee ha una galleria in Connecticut e conosceva bene sia me che Emmanuel.

Le foto di questo show sembrano venire da mondi lontanissimi. Sono state scattate duranti i tuoi viaggi in giro per il mondo?
Tutt’altro. Sono state fatte nel mio backyard a Los Angeles. Tranne una, che ho scattato nel supermercato dove vado di solito.

Il tuo show fotografico è presentato come una postapocalisse delle coscienze raffigurata attraverso spazi anonimi e vuoti, riempiti solo da corpi dai volti mascherati, perché?
Perché è quello che vedo intorno a me: ambienti urbani alienati quanto alienanti.

Heather Graham and Salman Rushdie

Per la tua mostra hai scelto il titolo Innocenti, ma io che ho potuto dare appena uno sguardo superficiale vedo invece tanti scatti minacciosi.
E come mai? Se ti guardi intorno con un approccio pragmaticamente freddo, le maschere che vedi sono solo pezzi di plastica.

Perché con la tua mostra mi evochi una desolazione feroce, una totale assenza di consolazione. Dalle tue foto sembra che non solo non ci sia niente da sperare, ma neanche da disperare. Ma davvero il mondo che vedi è così?
Quello che vedo io è che ogni singolo è innocente. È la collettività a essere colpevole.

Perché quei pezzi di plastica in faccia a tutti questi innocenti?
Si vergognano a causa del loro ruolo in una società e dentro una cultura incredibilmente e inutilmente distruttiva.

Parli di una postapocalisse delle coscienze, in preparazione di un’apocalisse reale. Nessuno di noi è morto, nessuno di noi è vivo, siamo soltanto maschere?
Siamo qualcosa. C’è una consapevolezza diffusa di quello che ho scelto di rappresentare, ma la gente comune, gli innocenti, invece di cercare una qualche formula segreta per salvarsi da questa apocalisse in arrivo, continuano a vivere le loro vite, la propria apocalisse, come se dovessero recitare un copione prestabilito da qualcun altro.

Moby

Il copione della tua vita ti ha fatto nascere a Harlem, quindi hai vissuto infanzia e giovinezza nel Connecticut. Poi, fra una tournée e l’altra, hai abitato a New York, fino a quando pochi anni fa hai deciso di trasferirti a Los Angeles. Quali sono state le ragioni di questo tuo ultimo trasloco?

Intanto perché sono un ex alcolista, e a Los Angeles riesco a essere sobrio. Invece quando vivevo a New York ero sempre fradicio.

Ti credo, anche se c’è qualcos’altro dietro a questa scelta, però…
Mi dispiace dirlo, ma la New York che ho vissuto io semplicemente non esiste più. Tutto è scomparso, diciamo, da una quindicina di anni. Gli artisti di questa città vivono, vivono preoccupati. I costi sono troppo alti. New York si è svuotata della sua anima e dei suoi artisti in meno di una generazione. Oggi non c’è più nessuno. A Los Angeles invece c’è una comunità di artisti alla quale mi sono unito volentieri.

Prossima tournée?
Farò soltanto due date, entrambe in California. Una all’Hollywood Masonic Temple e l’altra all’Integratron. L’Integratron è stato costruito da George Van Tassel. Gli sono apparsi gli alieni in sogno e gli hanno spiegato come costruire un edificio in grado di offrire un’acustica perfetta. E così l’ha costruito. Tutto questo grazie agli alieni, capisci? Sogno dopo sogno, gli hanno spiegato come fare.

Mi stai dicendo che credi negli alieni?
In quelli che hanno una spiccata sensibilità acustica, direi proprio di sì.

Moby in mostra a New York

Per concludere, vuoi salutare Eminem? È un po’ che non vi insultate attraverso i media.
Posso solo aggiungere che non capisco come un uomo come Eminem, qualcuno che ha venduto milioni di dischi e che ha raggiunto il successo che ha raggiunto, sia sempre e costantemente incazzato. Davvero non mi spiego come faccia.

Incazzatura e musica sono argomenti a volte fortemente interconnessi. A proposito, in pochi sanno che la tua prima band è stata The Vatican Commandos, un gruppo hardcore punk. Suoni ancora questo genere di musica, diciamo, rabbioso?
Sì, insieme a Travis Barker [batterista dei blink 182, N.d.R.] e Toby Morse [cantante degli H2o, N.d.R.].

Avete anche un nome?
Certo: siamo i Friends of Animals.

C’e’ un cd in arrivo insieme a loro?
Chissà.

Alessandro Berni

New York // fino al 31 dicembre 2014
Moby – Innocents
EMMANUEL FREMIN GALLERY
547 West 27th Street – suite 510
www.emmanuelfremingallery.com

Articolo pubblicato su Artribune.com

Posted in Artribune | Tagged , , | Leave a comment

Le aste online continueranno a crescere? Ci puoi scommettere

Ben Harthley è stato di recente nominato U.S. Manager di Auctionata.com. Con lui abbiamo naturalmente parlato di aste online e del loro futuro. 

Patek Philippe Split Second Chronograph - Venduto per 160 000 euro

Austrialiano di nascita, newyorkese da una vita: come sei arrivato a dirigere i quartieri generali americani di Auctionata.com?
Sono nell’arte contemporanea da venticinque anni. Ho avuto diverse esperienze cruciali, fra cui cinque anni come consulente al Guggenheim, vice-direttore del Museum of Art and Design e presidente della Luoise Bloin Media, dove ho supervisionato un organico globale di quattrocento persone in venti Paesi.

Auctionata.com è una casa d’asta puramente online. Non è la prima volta che sei coinvolto in un progetto web. Prima di lavorare per il cartaceo Luoise Bloin Media, hai trasformato Artinfo.com da una scommessa di sito a una realtà mediatica presente in venti Paesi e dodici lingue. Come vedi il futuro della comunicazione? Rimarrà solo il web oppure carta e Internet continueranno a convivere?
Credo che rimarranno a lungo in vita ambedue le alternative. Per entrambi i media è vero però che raggiungere profitti interessanti rimane una sfida sempre più insidiosa.

Online funzionano meglio le aste della comunicazione, quindi?
Le aste online stanno attraversando un momento di prima maturità dopo una lunga fase sperimentale e pioneristica.

Nata nel 2012 in una hall di Berlino per la volontà di quattro soci, oggi Auctionata conta 150 salariati e ha raggiunto il bilione di operazioni. Qual è il segreto del successo di questa rapidissima crescita?
Nessun segreto. Il punto di partenza è stato un software avanguardistico in grado di permettere il servizio di aste accessibile da qualsiasi angolo di mondo. Quindi è stata costruita una rete di esperti in grado di garantire l’autenticità dell’opera. La gente ha risposto in maniera positiva alla nostra offerta di valutazioni gratuite e veloci dei loro oggetti di valore. Basta mandare una foto ad Auctionata.com per ricevere in pochi giorni una stima gratuita.

Su quali fronti stai lavorando per continuare a far crescere il progetto che sei stato chiamato a dirigere?
Riuscire a comunicare online il senso dell’occasione da cogliere al volo; raccontare la storia dell’opera in vendita senza mai essere noiosi, ma offrire spunti educativi e di intrattenimento.

Ben Hartley

Qual è il lavoro più strano che vi è capitato di mettere all’asta?
La tuta spaziale di Laika, il primo essere vivente lanciato nello spazio nel 1957.

E il record di cui andate maggiormente fieri?
Un orologio Patek Philippe venduto per 620mila dollari. Per un orologio, è il prezzo più alto che si sia mai registrato attraverso il sistema di aste online.

Quali saranno i prossimi step di crescita per Auctionata.com?
Dopo Berlino e New York, abbiamo aperto una nuova sede a Roma.

Come siete arrivati a questa decisione?
La scelta strategica è dipesa dalla disponibilità di opere d’arte nella città piuttosto che dei compratori.

Un Paese di artisti ma non di collezionisti?
A proposito del settore orologi, il mercato italiano è incredibilmente attivo. Anche se, in effetti, il sistema Italia riesce a distinguersi più per le opere d’arte prodotte che per il numero di collezionisti.

Egon Schiele (1890-1918), Reclining Woman, 1916

Si fa un gran parlare di crisi dell’arte. Eppure il mercato dell’arte è sempre più ricco e continua a battere record. Inoltre, mai come oggi, si conta in tutto il mondo un crescente numero di artisti, curatori, progetti culturali, gallerie e musei. Per non parlare del fenomeno delle fiere…
Si, l’arte contemporanea non è in crisi. Il mercato cinese sta esplodendo sia nella domanda che nell’offerta. Il Qatar fino a dieci anni non esisteva. Dalla Cina continuano ad arrivare nuovi collezionisti. Stiamo vivendo un momento davvero prolifico di opportunità e siamo lieti di farne parte. Il mercato globale dell’arte supera i 65 bilioni di dollari annui. Di questi, solo il 5% di questo avviene online. Percentuale senz’altro destinata a crescere in futuro.

Casomai ad essere in crisi è la critica d’arte. Se si assottigliano le entrate per i progetti mediatici, praticamente stanno scomparendo i salari per i critici e i giornalisti d’arte…
Se guardiamo cosa succede nel cinema, la recensione di un critico è ancora in grado di vendere al botteghino qualche biglietto in più. Nell’arte contemporanea, la voce dei critici ha diminuito drasticamente la capacità di influenzare l’operato dei musei. Il mondo della vera critica d’arte sta scivolando in spazi sempre meno abbienti, sostituito da sempre più numerose fonti dove scrivono commenti critici esperti e critici di basso spessore. Questo è un fatto che è doveroso riconoscere. Così come è opportuno sottolineare che per fortuna è possibile trovare ancora buoni articoli come quelli di Holland Cotter sul New York Times o di Peter Plaggens sul Wall Street Journal, interventi che sono davvero un’esperienza divertente, educativa e speriamo stimolante per la maggior parte dei lettori.

Il mercato delle aste è diventato così grande e potente da ridurre gli attuali teorici dell’arte a dinosauri in via d’estinzione?
Le aste continueranno ad avere bisogno dell’operato di musei, galleristi, soprattutto di bravi artisti e naturalmente anche di curatori e critici d’arte. Artisti e operatori culturali rimangono alla continua ricerca di feedback. Questo bisogno non si estinguerà mai.

Magnificent Potpourri Porcelain Vase, KPM, Germany, around 1913

Qual è l’aspetto peculiare che sta vivendo in mercato dell’arte in questo presente?
Proprio quello delle aste online. Sta crescendo velocissimo. I numeri prodotti da Auctionata.com lo dimostrano. 650mila persone ci hanno contattato per una consulenza gratuita. Abbiamo messo in vendita quasi 100mila lotti attraverso più di cento aste online.

Novità di questo mese è un nuovo accordo fra Sotheby’s e eBay. È una notizia di cui avere timore?
No, anzi. È la conferma che il mercato delle aste online continuerà a crescere in maniera inarrestabile.

Alessandro Berni

http://auctionata.com/

Articolo pubblicato su Artribune

Posted in Artribune | Tagged , | Leave a comment

Jeff Koons: il milionario bambino chiude il vecchio Whitney

Tutto l’universo di Jeff Koons in mostra al Whitney Museum di New York. Una retrospettiva che ben documenta il fruttuoso universo stoicamente pre-adolescenziale dell’artista/manager più famoso del mondo. Con la sua mostra, chiude la sede storica del Whitney, in attesa dell’inaugurazione del nuovo spazio disegnato da Renzo Piano.

Jeff Koons al Whitney - Michael Jackson and Bubbles 1988, Photo Benjamin Sutton

Finì di contare i milioni, di giocare, l’artista/manager mai cresciuto oltre i tredici anni”. Dovrebbe essere questo l’epitaffio da dedicare al talento creativo e gestionale di Jeff Koons (York, 1955). Incipit funereo per una personale che sarà ricordata come l’ultima organizzata nella sede in Madison Avenue del Whitney Museum, e che vuole sottolineare l’approccio vitale e scanzonato al gesto creativo sempre valorizzato dalle capacità di calcolo di Koons.
Sono passati già più di cento anni dai primi necrologi sull’arte recitati in varie maniere dal serbatoio culturale euro-americano. Se correva l’anno 1909 quando il Giornale dell’Emilia pubblicava in anteprima il Manifesto del Futurismo comprendente un esaltante invito a distruggere tutti i musei, le biblioteche e le accademie in quanto cimiteri di sforzi vani, calvari di sogni crocifissi, registri di slanci troncati, era il 1913 quando per la prima volta aprì le proprie porte l’Armory Show, portando con sé l’invito a un New Spirit, a un ripudio dell’arte del passato. Appena pochi anni dopo, e con una guerra mondiale in corso, si arrivò con Dada alla teorizzazione dell’anti-arte (1916) e al pitale di Duchamp (1917). Un secolo più tardi e un Andy Warhol in mezzo, l’anti-arte, nata da apoteosi concettuali, vive oggi un animato presente reso florido da diversi e non ancora conclusi exploit finanziari. Se gli albori di questa anti-corrente ebbero come musa la negazione di secolari logiche e convenzioni fino al diniego e disprezzo rispettivamente dei propri concetti e opere; cento anni dopo, l’anti arte è realizzata principalmente per una ragione: essere venduta a carissimo prezzo.

Jeff Koons

Così il Whitney, per congedarsi dalla propria sede nell’Upper East Side e trasferirsi nell’infelice building di Renzo Piano nel Meatpacking District, ha deciso di celebrare la grandeur del conto in banca dell’artista americano più conosciuto al mondo; di avvalorare anche per il settore dell’arte il caposaldo newyorkese: sai fare soldi quindi sei bravo, piuttosto che, sei bravo, perciò meriti di fare soldi. Non perché precursore di un movimento artistico e nemmeno padre di una novella corrente concettuale o di uno stile, Jeff Koons si è meritato l’intero Whitney ad appena cinquantanove primavere in quanto caposcuola della nozione di artista/manager, dell’uomo che lavora ogni giorno per trasformare in brand il proprio nome e cognome.
La retrospettiva riconosce a Koons una continuità nel proprio percorso di vita consacrata alle fantasie di un ragazzino. In ordine sparso, Popeye, Michael Jackson, bronzei omaggi a canotti, palloni da basket: tutti soggetti solidamente residenti nella cultura popolare americana che Koons ha saputo iconizzare attraverso lavori tecnicamente impeccabili. Anche la figurazione del corpo femminile, presentata con una serie di opere dedicate alla prima moglie ed ex-porno star Cicciolina, ricordano il voyuerismo di un pre-adolescente alla scoperta del mondo pornografico, ed è volta quindi all’oggettivazione e al possesso del corpo desiderato.La sala dedicata alla serie Gazing Ball ci ricorda il peculiare approccio di Koons nei confronti del passato rispetto ai pionieri dell’anti-arte. Le opere di ieri non meritano di essere negate, ma anzi vanno assimilate, ovvero trasformate in prodotto, quindi vendute al prezzo più alto possibile.

Jeff Koons al Whitney

Una così ricca personale di Koons, oltre a un’istrionica non-maturità nei contenuti, fa sentire ancora più assordante il suo non-sguardo verso qualsiasi fatto sociale e politico, e riesce addirittura a intavolare una narrativa dell’assente che dimostra una sfacciata mancanza di originalità presentata come cruciale segno di distinzione. E chissà che l’artista non riesca in futuro a guadagnare qualche milioncino anche vendendo all’asta le numerose querele per plagio accumulate durante la propria carriera.
Alla curatela della mostra il merito dell’esemplare organizzazione degli spazi. Fa storcere il naso solo la decisione di porre delle barriere visuali a protezione delle due sculture nello spazio aperto antistante del caffè-ristorante del museo: una pesante protezione anti vandalica messa a difendere un paio di opere del forse più vandalico degli artisti viventi. Dispiace anche la copertina del catalogo, di una bruttura davvero risparmiabile oltre che deducibile fiero avanguardistico esempio dell’ultra-kitsch, cioè del repellente.

Alessandro Berni

Articolo pubblicato su Artribune

Posted in Artribune | Tagged , | Leave a comment

Tradizioni, queste sconosciute

Ridefinire l’idea di tradizione. Parte da questa premessa l’annuale show di “accademici” della National Academy.

Mae Carrie Weems - Italian Dreams

La prima accademia che la storia dell’umanità ricorda è la scuola filosofica di Platone, fondata nel 387 a.C. Diffusasi in tutto il mondo nei successivi 25 secoli, la nozione di accademia e il suo modo di operare si trova ad affrontare il guado storico attuale, quello dell’inizio di una nuova era, testimone di trasformazioni radicali in ogni area produttiva, compresa quella artistica.
Quali sono oggi per un’accademia le regole da tramandare fedelmente, quelle da assorbire e integrare alle novità tecniche offerte dal presente? Quali quelle da catalogare come obsolete e da non più perpetuare sui banchi di scuola, ma casomai da celebrare consapevolmente dentro spazi museali? In particolare, di quale struttura organizzativa un’accademia consacrata all’arte dovrebbe dotarsi per implementare i tumultuosi quanto continui cambiamenti dei sistemi di comunicazione; per sapersi difendere, ma anche dirigere dall’invasione tecnologica che l’essere umano sta vivendo in ogni sua interazione sociale?
Cosciente di questi interrogativi e di una nuova quanto in costante rapida trasformazione realtà sociale, la National Academy di New York, insieme alla propria comunità di artisti, architetti, educatori e studenti, ha inaugurato l’annuale mostra dei propri accademici.
L’Annuale, nata 188 anni fa, è ricordata come una delle prime vetrine dell’arte americana contemporanea. Creata dai fondatori Samuel F.B. Morse, Thomas Cole, e Asher Brown Durand, la mostra è stata per molti anni il principale sbocco per artisti e architetti americani.

Beverly Pepper- Homage

Se l’aumento dell’offerta espositiva di New York ha frammentato in diversi momenti e luoghi della città la possibilità per artisti e architetti di trovare il proprio riconoscimento, l’Annuale della National Academy resta comunque un punto di riferimento per i frequentatori della miglia dei musei e continua a essere un’importante rassegna dedicata all’arte contemporanea americana.
L’Annuale, quest’anno dedicata al concetto di tradizione, riesce a fregiarsi di opere principali di Jack Youngerman, Jessica Stokeholder e Whitfield Lovell per un percorso capace di aprire pagine di storia dell’arte americana e rimandi alla storia di integrazione sociale e di crescita urbana del Paese a stelle a strisce. L’Annuale 2014 ha anche sancito l’esordio come nuovo direttore dell’italiano Maurizio Pellegrin, che ha scelto come co-curatore della mostra il connazionale Filippo Fossati.
Scegliere come focus la ridefinizione del concetto di tradizione significa per un’accademia dalla storia secolare enfatizzare la necessità di dialogo fra vecchie e ultime regole di produzione artistica; offrire nuove direzioni attraverso le quali ripercorrere la storia recente dell’arte contemporanea americana e – perché no? – un anno zero dal quale generare una struttura flessibile capace di autoaggiornarsi attraverso le più attuali novità tecnologiche e saper interpretare e guidare i nuovi modelli di società, quindi di arte, di moda e di design.

Alessandro Berni

Articolo pubblicato su Artribune

 

Posted in Artribune | Tagged , , , , , | Leave a comment

Pianeta Pacific Design Center. Conversazione con Helen Varola

Vivere a Manhattan e gestire uno dei più prestigiosi spazi a West Hollywood? Si può. Abbiamo incontrato Helen Varola, che ci spiega come.

Pacific Design Center - photo Scott Frances

Helen Varola, indipendent art advisor, mestiere sfuggente quanto cruciale per il destino di artisti e gallerie. Come sei arrivata a questa professione?
L’arte occupa una parte molto importante nella mia vita. Ho studiato storia dell’arte all’Università di Chicago, quindi ho lavorato per notevoli gallerie quali Paula Cooper, Peter Blum, Blum Helman e Houk Friedman, fino a quando non ho deciso di continuare da sola.

Quando è arrivata la decisione di aprire la tua impresa?
Ho aperto la Helen Varola Advisory nel 1999. Avevo voglia di sentirmi più libera, di mettermi maggiormente in gioco.

Quali sono i requisiti principali che deve avere un art advisor?
Essere competenti è ovviamente un must, ma non basta. Servono reputazione ed energia, quindi coraggio.

Una laurea a Chicago, una vita intera a New York e oggi Los Angeles. Perché?
La crescita del mondo dell’arte contemporanea di L.A. è agli occhi di tutti. Artisti, curatori, critici, galleristi, collezionisti… in tanti si stanno spostando là e molti ancora sono attenti agli eventi che succedono. Ho cercato e trovato più che volentieri la sfida di unirmi ai pionieri del mondo dell’arte della città.

Pacific Design Center - Mary Younakof performance

Da quando lavori a Los Angeles?
Da quando ho lanciato il mio Arts Program al Pacific Design Center nel 2009.

Però ancora abiti nella Grande Mela.
Los Angeles è troppo lontana dall’Italia, Paese dove è nato mio marito e dove amo passare tutto il mio tempo libero. Restando a Manhattan e spostandomi a West Hollywood quando serve, tutto funziona bene.

Ci presenteresti il Pacific Design Center?
Già da prima di occuparmi della programmazione artistica del Pacific Design Center, lavoravo per il proprietario del building, Charles Cohen, per cui curavo la collezione privata. Il complesso di gallerie che dirigo al Pacific Design Center è un ambiente molto esclusivo, frequentato solo dal top degli interior designer, al quale si aggiungono gli amanti dell’arte di L.A.

Il Pacific Design Center è composto da tre building. Uno blu, uno rosso e uno verde. Dove si trova lo spazio che gestisci?
Si trova al secondo piano del building blu. È composto da più di 4.600 mq e al momento ospita dieci gallerie, ognuna delle quali si gestisce autonomamente.

Qual è il tuo ruolo?
La selezione delle stesse, che ho elaborato evitando gallerie gemelle. Inoltre mi occupo di vigilare sulla qualità delle mostre organizzate, così da attrarre sempre più collezionisti e musei.

 

Simyrn Gill, Varola Gallery

 Il prossimo step di crescita sul quale stai lavorando per il centro?

Aggiungere altre gallerie e progetti da New York, ma anche da Asia ed Europa, impegnandomi a includere solo realtà in grado di aggiungere ed esaltare l’esclusività dell’ambiente che ho già creato.

Qual è il momento migliore dell’anno per mettere un piede a L.A.?
Posso dirti il peggiore momento, che è luglio/agosto, ma non è come N.Y. dove novembre è forse il momento migliore dell’anno. Non c’è una stagione.

Ma a L.A. il mercato dell’arte è davvero arrivato?
Secondo me sì. Da una vita compro a L.A. e vendo a N.Y. È vero che ancora non c’è un mercato delle aste e quello delle fiere si deve sviluppare, ma non mi sento una pioniera della vague di arte contemporanea che si sta imponendo nella città.

Ah no? E perché?
Una vera anticipatrice è stata Ann Philbin. Si è mossa da New York a Los Angeles dieci anni fa. Allora era difficile immaginare un’evoluzione che oggi è davvero a un piccolo passo dall’esplodere e diventare fenomeno mondiale.

Alessandro Berni

www.helenvarola.com
www.pacificdesigncenter.com

Articolo pubblicato su Artribune.com

Posted in Artribune | Tagged , | Leave a comment

Madame Futurismo. Conversazione con Laura Mattioli

Siamo andati al CIMA – Center for Italian Modern Art di New York a intervistare la sua fondatrice Laura Mattioli. Per farci raccontare com’è nata la sua “creatura” e la sua personale visione della storia dell’arte.

Laura Mattioli - photo Jeoff Feinger

Laura Mattioli, storica dell’arte e collezionista storica. Ci racconti perché hai deciso di aprire un centro d’arte moderna italiana a New York?
Ho deciso di creare uno spazio di ricerca che sia capace di dare origine a una maggiore coscienza e attenzione dell’arte moderna italiana anche in connessione con l’eredità e gli sviluppi che ha saputo creare.

Il CIMA è nato per amore della Storia, quindi?
E per amore della ricerca e della verità, aggiungiamo.

Perché a New York?
New York è la città giusta per questa iniziativa in quanto grande catalizzatore di energia e persone. È il posto dove ancora tutto il mondo s’incontra.

Hai fatto tutto da sola?
Sì, perché ho un caratteraccio [ride, N.d.R.].

Qual è stato lo scatto che ti ha fatto decidere di cominciare quest’avventura?
La consapevolezza che l’arte italiana del Novecento fuori dal nostro Paese sia scarsamente conosciuta. Esiste una struttura molto rigida di pensiero nella storiografia. Dall’Impressionismo in poi, l’idea madre e inconfutabile è che tutto parta da Parigi, dall’esperienza francese. Tutto quello che è successo in seguito in Europa è una sua derivazione, una conseguenza. Il CIMA vuole mettere in discussione questa forzata e distorta lettura del nostro passato.

CIMA - Center for Italian Modern Art, New York 2014 - photo Walter Smalling Jr.

In che modo?
Creando nuovi interrogativi. Permettendo agli storici e teorici dell’arte che frequentano il nostro centro di sostare a lungo di fronte alle opere esposte e – perché no? – di viverci dentro per un breve periodo. L’osservazione continua e profonda di un’opera permette il naturale scaturire di riflessioni e interrogativi. C’è un vantaggio cruciale che hanno i collezionisti rispetto a chi studia la storia dell’arte soltanto attraverso musei e cataloghi: la vicinanza quotidiana con le opere. Aprendo questo luogo, ho scelto di condividere il privilegio.

A proposito delle forzate e distorte letture che la storia dell’arte ha prodotto, ci fa qualche esempio concreto?
Tutti conoscono il Surrealismo. Che cosa ha fatto de Chirico per il pre-surrealismo è un argomento trascuratissimo che non conosce quasi nessuno. Oppure, prendi l’opera The Bycicle Race di Lyonel Feininger: ricordo uno statement che diceva che il quadro era di ispirazione picassiana. Feci un salto perché Picasso non aveva mai dipinto un ciclista. Quel quadro, quel soggetto deriva da Boccioni, dai futuristi, non certo da Picasso.

Cubismo e Futurismo, sorelle dell’arte del secolo scorso dove il movimento italiano fa da cenerentola.
Il Cubismo fu un’avanguardia elitaria. Dipingevano per pochi eletti che potevano capire quello che facevano. Non erano interessati ad alcun rapporto con il pubblico. Il Futurismo, invece, nacque con l’intenzione di cambiare il gusto della gente. Iniziò con un manifesto. I suoi promotori erano motivati dall’intenzione di essere presenti nell’arte, nella politica e quindi nell’opinione pubblica.

CIMA - Center for Italian Modern Art, New York 2014 - photo Walter Smalling Jr.

Cent’anni dopo riconosciamo il contrario: Picasso e il Cubismo sono conosciuti da una larghissima fetta della società, mentre il Futurismo e i suoi maggiori esponenti sono apprezzati soltanto da una ristretta élite. 
La percezione attuale è derivata da una risposta di rifiuto fortissima del fascismo e quindi dell’arte prodotta durante gli anni della dittatura mussoliniana. Accendere un riflettore sul Futurismo vuol dire toccare una verità rivelata, rivoltare il modo in cui questo movimento è stato studiato e catalogato fino ad oggi.

Laura Mattioli e il CIMA hanno l’ambizione di aggiungere nuove pagine di storia dell’arte sull’argomento?
Molto di più. Vogliamo cambiare sguardo, sollevare nuove questioni e quindi risposte, permettere una visione più libera e, quando serve, più provocatoria.

Vogliamo dire più futurista?
E diciamolo.

Articolo pubblicato su Artribune

Alessandro Berni

Posted in Artribune | Tagged , , , , | Leave a comment

Parma-Manhattan solo andata. Intervista con Ilaria Amadasi

Essere italiani madrelingua e recitare Shakespeare a New York? Yes, we can. Conversazione con Ilaria Amadasi, che ci racconta com’è riuscita a raggiungere il suo sogno.

Ilaria Amadasi

Ilaria Amadasi, professione attrice. Ci ricordi i tuoi inizi teatrali?
Mi sono formata alla scuola del Teatro Stabile di Genova diretta da Anna Laura Messeri. Ricordo di aver trovato un ambiente duro al quale sono ancora riconoscente.

In che senso, duro?
È una scuola alla vecchia maniera. Dove è molto alto il rispetto nei confronti degli insegnanti, tanto per farti un esempio. Un approccio che qui a New York è rarissimo da trovare.

Ci sono tecniche teatrali che sei riuscita a esportare negli Usa?
La scuola di Genova si basa sul metodo Orazio Costa. Per semplificarla, è un tipo di recitazione molto realistica, naturale, che ti permette una maggiore consapevolezza nell’impiego del proprio corpo.

E durante questi corsi è nata la tua decisione di cambiare lato dell’oceano?
Senz’altro è nata la scintilla che mi ha fatto innamorare per sempre del teatro. In particolare è successo durante lo spettacolo Il buio di giorno di Henning Mankell, diretto da Filippo Dini. Interpretare questa storia drammatica mi fece capire che tipo di lavoro volessi fare. La decisione di trasferirmi a New York è arrivata dopo.

The Taming of the Shrew - Ilaria Amadasi

Quando?
In seguito a un’audizione andata male. Si trattava di una co-produzione fra il Teatro Stabile di Napoli e un teatro di Londra. Il feedback del loro rifiuto fu che il mio inglese non era sufficiente. Così mi legai al dito questa esperienza e decisi di partire.

Che anno era?
Ho messo piede per la prima volta a New York il 10 aprile 2009, per tre mesi. Quindi è iniziato il dramma del visto.

Adesso hai un visto 01, quello da artista, giusto?
Sì, il primo O1 l’ho ottenuto attraverso la sponsorizzazione da parte della compagnia di commedia dell’arte di Parma per un progetto di scambio culturale. Passati i tre anni, ho fatto un nuovo O1 con Frog & Peach Theatre Company, compagnia con la quale ho in programma due opere di Shakespeare ogni anno.

Appena arrivata, sei riuscita a salire subito sul palco come attrice?
Ho cominciato da dietro le quinte, muovendo luci e creando suoni. Ho anche disegnato qualche set. Quindi ho cominciato a recitare.

Midsummer Night's Dream - Ilaria Amadasi

Sempre off Broadway?
Sempre. Per me, l’off Broadway è la nuova Broadway.

In che senso?
Nel senso che off Broadway è senz’altro culturalmente più impegnato e sperimentale rispetto a Broadway. A Manhattan esistono tante piccole quanto vivaci realtà teatrali capaci di trovare il coraggio di toccare anche testi vecchi e magari poco rappresentati.

Qualche differenza tra la maniera di recitare in Italia e quella americana?
Le persone negli Usa sono più soffocate emotivamente. Sono più costrette nel loro corpo. C’è una sorta d’imbarazzo, di pudore. Assurdo, in quanto qui il pudore in tanti altri contesti non esiste assolutamente.

Il tuo prossimo spettacolo?
King John, dal 24 aprile al 18 maggio, al West End Theater, prodotto da Frog & Peach Theatre Company e diretto da Lynnea Benson.

Ilaria Amadasi

Quale personaggio interpreterai?
Blanch, l’Infanta di Spagna. È stata cresciuta come una guerriera e dovrà combattere in scena con spade e tutto il resto. È una cosa che mi affascina molto.

Come ti sta aiutando New York per interpretare questo personaggio?
Blanch viene costretta a sposarsi per un matrimonio politico. A New York spesso ti trovi a fare cose che non vuoi fare, ma che accetti e, mentre le fai, scopri nuova grinta e determinazione per raggiungere i tuoi sogni e obiettivi.

E Ilaria Amadasi i suoi sogni li ha già raggiunti?
Diciamo che sono on my way, ma sento che il meglio deve ancora venire.

Alessandro Berni

http://www.frogandpeachtheatre.org/

Articolo pubblicato su Artribune.

Posted in Artribune | Tagged , , , , | Leave a comment

Arturo Di Modica. Il padre del toro più famoso al mondo

Conquistò un’attenzione planetaria venticinque fa, quando abbandonò un toro in bronzo a due passi da Wall Street. Oggi Arturo Di Modica ha ancora voglia di stupire, di realizzare progetti sempre più grandi. Siamo andati a parlarne con lui nel suo studio a Tribeca.

Arturo Di Modica

Maestro, vorresti condividere con noi i ricordi del tuo arrivo a New York?
Appena arrivato, la prima decisione fu dove andare ad abitare. Per capire la morfologia della città, affittai un elicottero. Mi feci un lungo giro, quindi scelsi Soho. È là che ho sempre vissuto fino a quando non mi sono trasferito a Tribeca, otto anni fa.

In quale momento della tua vita avvenne questo trasferimento?
Ricordo che avevo appena abbandonato la Scuola Libera del Nudo dell’Accademia di Belle Arti di Firenze. Con loro non era finita molto bene.

Cos’era successo?
Dicevano che ero un rompiscatole, che non volevo mai ascoltare. Quindi mi dissero: se pensi di essere così bravo, perché non lasci la scuola e apri la tua fonderia?

E tu, li prendesti in parola?
Capii che era arrivato non solo il momento di lasciare la scuola, ma anche l’Italia per New York. Arrivai in un momento magico per Manhattan. Nel 1985 comprai per 45mila dollari un pezzo di terreno fra due palazzi. Con le mie mani, insieme a due messicani costruii una palazzina alta tre piani ai quali aggiunsi altri due piani nel sottosuolo.

Arturo Di Modica, Charging Bull, New York

Parlare dei tuoi ricordi significa inevitabilmente introdurre la storia del toro di Wall Street. 
C’era una forte crisi finanziaria. Per dare un segnale di incoraggiamento, mi venne in mente di fare un toro, simbolo della borsa che cresce, per la città di New York. Lo realizzai nella casa che mi ero costruito. Lo cominciai nel 1987 e lo finii nel 1989. Mi costò 350mila dollari. Quindi lo presi e lo abbandonai davanti allo Stock Market.

E loro?
Me lo portarono via. Per tre giorni nessuno sapeva dove fosse. Alla fine riuscii a sapere che era in un deposito nel Queens.

A quel punto cosa facesti?
Quello che c’era da fare. Andai a prenderlo. Pagai la multa, mi pare fossero 500 dollari. Quindi lo abbandonai di nuovo per strada. Questa volta al Bowling Green Park, dove si trova ancora oggi e nessuno può toccarlo in quanto monumento nazionale.

Questa però non fu l’unica volta che hai abbandonato la tua arte per le strade di New York. 
Infatti. La prima volta avvenne diversi anni prima, nel 1977.

Come andò?
Decisi di lasciare per strada tutte le mie sculture. Noleggiai tre camion e una gru. Quindi partii da Soho in direzione del Rockfeller Center. Le notti prima avevo cronometrato i movimenti delle pattuglie di polizia. Sapevo che avevo meno di cinque minuti di tempo per muovere 60 tonnellate di marmo. E così feci.

Filò tutto liscio?
Insomma. Appena posata la prima scultura arrivò una guardia privata a chiederci se avevamo i permessi. Io risposi “certo, sono nella cabina del camion là in cima”. Andammo alla cabina e cominciai a fingere di cercare i permessi, intanto i miei assistenti stavano continuando a scaricare le opere. La guardia non era per niente babbea, vide che stavamo andando troppo veloce e chiamò la polizia.

Ti arrestarono?
Arrivarono sette pattuglie. Non ti so dire quanti poliziotti. Ne ricordo uno con la pistola in mano. Nessuno ebbe il coraggio di prendere l’iniziativa di arrestarmi e telefonarono al sindaco.

Abraham D. Beame?
Proprio lui. Raggiunto al telefono, scese dal letto e disse: “Voglio proprio vedere in faccia questo brass balls [palle di ottone, N.d.R.] che mi ha fatto svegliare nel cuore della notte”.

Lo studio di Arturo Di Modica

Una maniera piuttosto insolita di fare la conoscenza del prima cittadino di New York.
Direi di sì. Appena arrivato gli passai un volantino dove denunciavo il ruolo marginale dell’arte nella società. Ne avevo stampate 250mila copie.

Ne avresti una da farmi leggere? 
E chissà dove sono finite.

Dopo aver letto il volantino, il sindaco cosa ti disse?
Fate 20 dollari di multa a questo ragazzo e andatevene a dormire. Il giorno dopo, New York sarebbe stata in prima pagina sui giornali di mezzo mondo e lui questo l’aveva capito subito.

Arturo Di Modica, oggi, su quali progetti stai lavorando?
Ce ne sono tanti. Commissioni di varie sculture e un progetto che è un sogno di quando ero ragazzo: due sculture equestri e una scuola internazionale privata di scultura ad Azzurra, la mia terra di origine in Sicilia.

Questi ultimi due progetti li stai portando avanti dal tuo studio a New York?
Vivo ancora qua, ma torno in Sicilia almeno quattro volte l’anno. Anche per la mia famiglia che abita là: mia moglie Stefania e le nostre figlie Marianna e Nadia.

Com’è nata l’idea della scultura equestre?
Avevo sedici anni e m’immaginavo due cavalli grandissimi che impennavano sopra le rive del fiume Ippari. Sono quasi pronto per la loro realizzazione. Saranno in bronzo, alte quaranta metri.

E l’accademia internazionale di scultura?
La sto preparando in uno spazio di 100mila mq. C’è anche un teatro costruito al contrario rispetto a quello greco. La gente vedrà le performance da sotto e le scene si svilupperanno in aria, verso il cielo. Ho fatto portare decine di ulivi secolari. La realizzazione di questi progetti per la valle dell’Ippari e per tutta la Sicilia sarà nuova linfa vitale. Porteremo turismo e nuove ricchezze.

Lo studio di Arturo Di Modica

Un progetto molto grande. Le istituzioni ti stanno aiutando?
Sto facendo tutto da solo. Ce la posso fare.

Anche nel mercato nell’arte sei conosciuto come un felice esempio di un artista indipendente di successo. Come sei riuscito a muoverti tutta la vita senza mai legarti a una galleria?
Chi ha voluto la mia arte ha sempre saputo come trovarmi. A dire il vero da sei mesi mi lascio aiutare da una galleria in Connecticut. Otto anni fa ho scoperto di avere un cancro. L’ho sconfitto, ma oggi sono un po’ stanco.

Posted in Artribune | Tagged , , , | Leave a comment

Parla Linda Yablonsky. Dalle colonne di Artforum e New York Times

Nella propria vita ha scritto un solo romanzo, è fra le voci più autorevoli della critica d’arte della sua città e ha il potere di far esaltare, ma soprattutto di far distruggere un evento. Non stiamo parlando del Jep Gambardella de “La grande Bellezza”, ma dell’altrettanto mitica Linda Yablonsky.

Linda Yablonsky

Signora Yablonsky, nell’Oscar La grande bellezza il protagonista è un critico d’arte che ha scritto un solo romanzo e convive con la responsabilità di poter celebrare quanto rovinare gli eventi della propria città. Questa presentazione non le ricorda qualcuno?
Dicono che abbia questo potere. Quando lavoro cerco di non pensarci, di mettere fuori ogni sentimento ed esprimermi con la massima imparzialità. Quando si scrive, lo stato emotivo può condizionarti fortemente, tanto da poter farti scrivere qualcosa di buono o di cattivo sul solito show. Partire da questa consapevolezza ti aiuta a mettere il mondo fuori, a fare spazio all’obiettività necessaria per far bene il tuo lavoro.

Il film di Sorrentino parla della grande bellezza, chimera che il protagonista rincorre, sogno dentro il quale ama immergersi, prossimo romanzo che auspica come il capolavoro della propria vita. Tu pensi mai a scrivere un secondo romanzo?
Sinceramente no. E penso raramente anche al concetto di grande bellezza. Quello che amo cercare sono in generale grandi storie da trasformare in grandi esperienze. La bellezza mi affascina quanto il tragico, due forze necessarie quanto capaci di bilanciarsi nell’universo.

Come sta l’arte contemporanea di New York?
Bene. Per New York questo è un momento positivo. È ricchissima di eventi non soltanto a Chelsea, ma in vari luoghi della città.

La crisi Lehman del 2008 è già stata smaltita?
Per il mercato dell’arte è stato un duro colpo, ma in altri settori è andata molto peggio. Le fluttuazioni e gli aggiustamenti di prezzi sono capitate prima e continueranno a succedere anche in futuro per motivi diversi.

linda yablonsky

 

Un esempio?
La sovraesposizione di arte femminile susseguita a un lunghissimo periodo di non considerazione, durante il quale i lavori creativi delle donne venivano presi poco sul serio. Ma questi sono argomenti da art dealer. Un critico d’arte non deve occuparsene.

E allora, qual è il fulcro di cui un critico d’arte si deve occupare?
Oggi il giudizio di un critico d’arte non vende i biglietti per un teatro o per un cinema. Il suo ruolo deve essere quello di informare con autorevolezza, scegliere di segnalare quello che merita di essere sottolineato, in pratica influenzare la maniera in cui la storia sarà scritta.

A proposito di storia, il nome di qualche artista per il quale prevede un grande futuro?
Potrei fartene qualcuno, ma non voglio. Per valutare seriamente il lavoro di un artista, per capire cosa è importante e cosa è cattivo, occorre una prospettiva di almeno venticinque anni. Non rientra nel mio ruolo prevedere.

Qual è il miglior approccio per scrivere una critica d’arte?
Andare a vedere uno show senza aspettative. Questo è senz’altro il miglior punto di partenza.

Quindi?
A me piace cercare di tenere presenti luoghi e circostanze relative alle opere in questione. Lo stesso lavoro, se esposto in un museo in Europa, in una galleria a New York o in uno spazio pubblico in Asia, acquista un valore completamente differente, quindi altrettanto diverso deve esserne il giudizio. È un argomento che mi ha sempre affascinato molto.

Linda Yablonsky

Sono nuovo della città. Arrivato da un paio d’anni, mi sto impegnando a visitare molti opening. In generale, sono molto sorpreso dalla scarsità di arte sociale. È condivisibile accusare l’arte di questa città di incoscienza civile?
Le foto di Che Guevara in giro non ci sono più, se è questo il tipo di arte che cerchi. Quello che puoi trovare è arte che contiene un marchio gay, oppure afro. Argomenti politici fortemente attuali nel presente di questa città.

Sarà, ma la mia impressione rimane che l’arte esposta alle pareti di questa città galleggi e talvolta affoghi nel de-pensiero e nella noia. È giusto rimproverare i galleristi di prendere pochi rischi nella selezione delle opere che espongono?
Tenere aperta una galleria a New York significa affrontare molti costi. Il lato commerciale senz’altro provoca pressioni nella scelta delle opere esposte e lascia poco spazio alle sperimentazioni. Devo riconoscere che negli Anni Ottanta l’energia di questa città era differente. Oggi l’energia che c’era allora non si sente più.

Linda Yablonsky

Internet e la critica. Come la tecnologia ha cambiato questo settore?
Aumentando le fonti, il dialogo fra critici si è fratturato in tanti luoghi. Inoltre, la gente si informa in molti più luoghi di una volta, facendo così diminuire l’autorevolezza delle fonti istituzionali.

I giornali di arte contemporanea continueranno a essere stampati anche in futuro o presto arriverà l’edizione del loro ultimo numero?
C’è qualcosa che capita a me, ma non so se succede anche alla gente normale: quando guardo una pagina di un giornale, la maniera in cui le informazioni sono organizzate, mi aiuta a conoscere l’argomento meglio rispetto al solito ragionamento presentato su uno schermo. Anche per la parte visiva, le riviste e i giornali sono in media migliori rispetto agli schermi, dove le immagini sono spesso tagliate. Credo che i giornali d’arte continueranno a vivere a lungo.

Quali sono le opportunità più interessanti che un critico d’arte può ottenere dalla tecnologia?
Velocità e comodità nel raccogliere le informazioni. Ma anche qui c’è un lato negativo della medaglia.

Cioè?
Il rischio di isolarsi troppo. Se vai a informarti su un artista in biblioteca, ti può capitare di cominciare una conversazione con il bibliotecario che ti porta a una domanda che, se tu fossi rimasto solo a casa, non ti sarebbe mai venuta in mente. Il dialogo è il sale della critica.

Articolo pubblicato su Artribune

Alessandro Berni

 

Posted in Artribune | Tagged , | Leave a comment

La studio visit di un genio. Incontro con Vito Hannibal Acconci

Il maestro Vito Acconci ci ha aperto le porte del suo studio a Dumbo (Brooklyn) per una conversazione durante la quale ha ripercorso il suo cammino artistico e i suoi progetti attuali. Anche grazie alle domande fatte dai lettori di Artribune.

Vito Acconci

Vito Acconci

Quarant’anni fa il suo lavoro Diary of a Body 1969–1973 ha conquistato l’attenzione mondiale: duecento performance preparate e catalogate minuziosamente. Il tempo che si è aggiunto ha cambiato qualcosa alle sue performance?
Di quegli anni ricordo la Guerra in Vietnam. Fu un evento che mi scosse interiormente e cambiò definitivamente la mia visione degli Stati Uniti. Tolse la maschera alla faccia vigliacca del governo del nostro Paese. Il fulcro della mia serie di performance nacque dall’indignazione verso l’amministrazione pubblica.

Mi sta dicendo che le sue pubbliche masturbazioni ebbero un movente soprattutto politico?
Unicamente politico.

C’è qualche performer interessante in questo presente?
Fare performance, oggi, non ha più senso. Non serve a nulla e non capisco le ragioni di chi le fa. Non posso farti alcun nome perché non conosco nessuno. Ignoro totalmente l’arte di questi giorni.

E perché l’arte di oggi meriterebbe di essere ignorata?
È diventata un business per pochi, roba da ricchi. A me interessa essere al centro di qualcosa, e con l’arte non è più possibile, mentre invece è qualcosa che può accadere facendo architettura e design. Creando nuovi spazi architettonici riesci ad arrivare a tutti.

Vito Acconci, Step Piece, 1970

Vito Acconci, Step Piece, 1970

Parliamo allora dell’architettura di New York. Lei è nato e cresciuto nel Bronx, quindi si è trasferito a Brooklyn. Com’è cambiato il corpo della sua città? 
Senz’altro non possiamo dire che il corpo di New York sia diventato più bello. Basti pensare allo scempio della nuova torre a Ground Zero.

Scempio?
La simmetria è uno sbaglio. È un progetto fuori tempo. È una costruzione classica. E questo non è il periodo storico adatto per questo genere di opere. Inoltre è fuori luogo. Hanno scelto un’altezza da guinness che ha peggiorato notevolmente la vista dello skyline. È evidente che il panorama è peggio di prima.

Abbiamo selezionato alcune domande dai nostri lettori. GioFusar si domanda se sia possibile immaginare ancora un futuro per un’arte a zero impatto tecnologico.
Certo che è possibile, ma capisco bene l’attrazione delle persone creative verso i New Media. È naturale che riescano ad attrarre tante menti creative, ovvero curiose. Il mondo virtuale è una meravigliosa realtà. In generale, sono sorpreso che la maniera di utilizzare i Pc sia poco cambiata rispetto ai suoi albori. M’immaginavo un’evoluzione diversa.

Verso quale direzione?
Vedi questo schermo? Quando lavoro al Pc è soltanto davanti a me. Mi aspettavo l’evoluzione di macchine e di schermi tutt’intorno all’uomo e non solo davanti a sé.

Vito Acconci, Traffic Light Piece, 1969 - Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT

Vito Acconci, Traffic Light Piece, 1969 – Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT

C’è un giovane artista, Giò Woodman Lebowsky, che si domanda quanto tempo un emergente deve destinare alla promozione delle proprie opere, frequentare curatori e impegnarsi nella ricerca di spazi museali.
I musei sono posti davvero falsi. Non si può toccare nulla, solo vedere. Come se tutte le opere fossero solo visuali. Davanti a un’opera d’arte, il senso più importante è l’udito. Le grandi opere fanno rumore.

A proposito dell’altra parte della domanda: cosa consiglierebbe a chi le chiede se serve fare il PR di se stesso?
Io sono cresciuto in un tempo totalmente differente. Senz’altro all’inizio della mia carriera non pensavo a promuovere quello che facevo. Fare pubbliche relazioni è un’attività alla quale non ho mai dato valore. Oggi forse è diverso. Non so rispondere. Te l’ho detto, non guardo a quello che succede in questi giorni.

Silvia Urso Falck ci ricorda che la sua prima arte è stata la poesia. Perché ha smesso di scrivere?
Io non ho mai smesso di scrivere. Quando scrivo un progetto, lo considero un momento creativo cruciale. Penso davvero che scrivere sia la cosa che so fare meglio.

Ogni tanto dà un’occhiata alle poesie che scriveva da giovane?
E perché dovrei? So dove sono e cosa c’è scritto. Non ne ho bisogno.

Vito Acconci, sketch per un ponte in Tasmania

Vito Acconci, sketch per un ponte in Tasmania

Angela Congiu ci chiede perché abbia abbandonato la Body Art.
Ho bisogno di cambiare. Non m’interessa diventare un esperto di qualcosa. Mi piace cercare di fare cose che non ho mai fatto prima. Non capisco tutta questa curiosità nei confronti di attività vecchie di trenta/cinquant’anni. Assurdo. Ma perché?

Lei non è proprio qualcuno che ama guardare al suo passato…
Il mio passato l’ho bruciato.

Bruciato?
Certamente. Mi piace tenere il mio sguardo verso i miei prossimi progetti. Verso il futuro.

E il futuro di Vito Acconci quali progetti prevede?
Stiamo per inaugurare un tunnel a Swarm Street, nella città di Indianapolis. L’unicità dell’installazione sta nell’illuminazione che segue le auto e le persone quando lo percorrono. Da sopra, dal basso e di lato le luci seguono il movimento di chiunque lo attraversi.


Un progetto in fase germinale di cui ha voglia di parlare?
Un ponte in Tasmania. Sarà come il delta di un fiume.

Come si sviluppa la realizzazione di un’idea di Vito Acconci? Fa tutto da solo o si avvale di un team?
L’architettura è un gioco di squadra. Prevalentemente si tratta di risolvere problemi tecnici e permettere alla propria visione di realizzarsi concretamente. Mi piace discutere con i miei collaboratori, litigare se necessario. Dal conflitto possono nascere tante idee vincenti.

C’è qualche disegno che può farmi vedere? 
Sono qui sul tavolo. Il ponte è un percorso che può variare, vedi?

Possiamo pubblicarli o è ancora materiale riservato?
Mostrali pure. Posso fartene una copia. E poi ti metto una freccia. Così puoi capire l’orientamento di ciascuno. Tieni, prendili pure.

Alessandro Berni

Swarm-Street SwarmStreet vito acconci vito acconci vito acconci vito acconci vito acconci Vito Acconci Vito Acconci Vito Acconci vito acconci vito acconci vito acconci vito acconci

Articolo pubblicato su Artribune

Posted in Artribune | Tagged , , , | Leave a comment